Notti di seta – Capitolo 6 – Intermezzo – di elrohir

Desclaimer: purtroppo non sono miei i personaggi ma li ho solo presi in prestito!!! Sono del maestro Inoue!!

Ciaaaaaooooo! Mi siete mancati! Allora, come state? Io bene, i nostri amati protagonisti (kae soprattutto) un po’ meno! diciamo che la storia è andata avanti, e la mia vena sadica si sta mostrando in tutta la sua malignità! Ma state tranquilli, tutto andrà per il meglio (alla fine) (ehm… mooolto alla fine…)

di Elrohir

Capitolo 6 – Secondo intermezzo

Piove. Piove da due giorni.

Akira sta alla finestra, la fronte posata contro il vetro.

Freddo.

Tutto è freddo, in quella stanza, anche se il fuoco scoppietta nel camino.

Tutto è freddo perché lui ha freddo. Nel cuore.

Sente una strana inquietudine serpeggiare. Gli occhi si dilatano leggeri. Ha paura.

Perché?

È a casa sua, nella sua stanza preferita, con la musica che copre il silenzio e anche se fuori piove, se fuori tempesta, se fuori diluvia… lui è comunque salvo. Asciutto.

Allora, perché?

Poi, d’improvviso. Capisce.

È come se l’avessero urlato.

Come se la sua voce, la sua voce carezzevole, velluto scuro, si fosse spezzata in quel grido.

E Akira non può stare fermo ad ascoltarlo piangere.

Si alza, come una marionetta cui il burattinaio tende i fili, si precipita giù per le scale di quella casa troppo vuota, si precipita giù dalle scale e spalanca la porta prima che quelle mani stremate si abbattano sul legno.

Lui è lì fuori.

Fradicio. La cerniera della felpa grigia è metà aperta, un lembo di stoffa scivolata sulla spalla scopre la canottiera bianca. L’elastico si arriccia sui fianchi, e i pantaloni sono pesanti.

I capelli cadono sugli occhi. Gli occhi sono sgranati.

Non parla. Non dice niente.

Non ce n’è bisogno.

Akira ha già sentito il suo urlo.

E sa cosa fare. O almeno, crede di saperlo.

Afferra la felpa, lo tira dentro.

Se lo schiaccia addosso, preme quel bellissimo viso contro il suo petto, sente il tremito del corpo nervoso, sente il gelo della pelle vellutata. Sente le mille gocce di pioggia che scendono a imbevergli i vestiti, mentre il dolore di Kaede affonda anche il suo cuore.

Lo stringe forte, fortissimo, come se in questo modo potesse salvarlo, potesse trattenerlo, impedirgli di cadere. Potesse scaldarlo.

Lo stringe forte, e intanto piange. Kaede singhiozza, stringendo convulsamente i pugni sulla maglietta di suo cugino.

Akira gli accarezza i capelli. Sente le ciocche bagnate scivolare tra le dita, sono ancora più sfuggenti adesso, ancora più ribelli. Bacia quella testa scura, con tutta la dolcezza e la devozione di un sacerdote di fronte al proprio dio.

E intanto sussurra frasi sciocche, sussurra parole dolci, sussurra canzoni di bambini, sussurra colori di cieli estivi, sussurra inverni passati a pattinare, e la musica nella stanza di notte, le favole sotto le coperte, con le torce accese di nascosto per non farsi scoprire, sussurra gli incubi e i sogni di due bambini figli del mondo, figli del mare, sussurra nuvole e soli e stelle… tante stelle, tutte da contare…

Sussurra senza ascoltarsi nemmeno lui, le orecchie tese soltanto a cogliere quei singhiozzi strozzati, quel pianto costretto incapace davvero di sciogliersi.

E poi. Il silenzio.

Kaede trema ancora. Akira sa che continuerà a farlo per molto, molto tempo. Forse, per sempre.

Kaede è ancora freddo. Akira sa che continuerà a esserlo per molto, molto tempo. Forse, un giorno qualcuno riuscirà a scaldarlo.

E poi. Il buio.

Kaede alza gli occhi, e in quelle iridi marine non c’è un cielo a primavera, non ci sono petali di ciliegio e neanche il mare visto dal molo. Akira vi scopre dentro naufragi, navi gettate sugli scogli, e oceani di dolore che affogano segreti. Vi vede incendi, morte e passione alzarsi allacciate, e d’istinto rafforza la stretta su quel corpo esile, come per impedirgli di bruciare, o di affondare.

Certe emozioni non dovrebbero neanche affacciarsi, in occhi così belli.

E poi. Le labbra.

Premute contro le sue. In un contatto fermo, deciso, esigente.

Per la prima volta, dopo sei mesi. Di nuovo quella sensazione.

Così simile. Così diversa.

Socchiude la bocca, e si scopre a domandarsi, stranito, come faccia la lingua di suo cugino ad essere così calda, mentre tutto il resto di lui è così freddo.

Si abbandona al bacio, per soffocare l’amaro, per tacitare il futuro.

Non c’è futuro. Non per Kaede. E neanche per lui.

Cadono sul divano, ancora avvinghiati.

Quanto dura quel bacio? Akira non lo sa. Non ricorda.

Ma in ogni caso, il tempo non è sufficiente. Non è sufficiente per calmare quella fame rabbiosa che sente crescere dentro. E neanche per riempire il vuoto che, improvvisamente, si è aperto nel petto di quella ninfa bambina.

Quando sente le labbra del cugino volare sul suo petto, e poi scendere, fa violenza su sé stesso e lo scosta.

Non parla. Di nuovo, non ce n’è bisogno. Kaede capisce.

E posa la testa sul suo petto, respira una volta, ricomincia a piangere.

Akira resta fermo, gli occhi spalancati a fissare il soffitto. Ho fatto bene a bloccarlo?, si chiede. Non sarebbe stato meglio se gli avessi permesso di andare fino in fondo, fin dove riusciva? Ho peggiorato tutto, fermandolo?

Più tardi, quando i dadi avranno smesso di ruotare e mostreranno il loro sbeffeggiante punteggio, si porrà la stessa domanda. Ma allora, conoscerà la risposta.

Saprà di avere sbagliato.

Akira pov

Era stato il dolore a tingere di bianco il funerale?

Era opera del vuoto, di quella strana voragine che mia madre e mio cugino sentivano aprirsi nel petto, lenta e ipnotica, dolcemente minacciosa?

Ricordo di essermelo chiesto, in piedi davanti alla tomba chiara, in contrasto con la terra smossa, scura, bagnata di pioggia.

Il sole finalmente era tornato.

Mio zio vestiva di nero, come sempre elegante, come sempre impeccabile. Non sembrava lui il vedovo, per niente. Non conoscendolo, lo si sarebbe scambiato per un passante qualunque, attratto dalla folla e blandamente curioso, un uomo d’affari in attesa soltanto del momento giusto per svincolarsi e tornare al lavoro.

In effetti, non era altro che questo.

E al suo fianco stava mio padre. Con una mano sulla sua spalla. Un gesto di conforto così sciocco, e così ipocrita. Così inutile.

Non vedevo gli altri parenti. Erano tutti fuori dal mio campo visivo. Piangevano, forse? Oppure si guardavano intorno curiosi, in attesa di commentare?

Non lo sapevo. E non mi importava.

Perché io ero lì. In mezzo alle mie due candide statue. Tra i miei due diamanti affilati.

Mia madre teneva fissi gli occhi sulla lapide. Marmo bianco, lo stesso colore della loro pelle. E quei caratteri scuri… non aveva senso, leggerli. In fondo, cosa potevano dire?

Aveva gli occhi asciutti. E l’abito si apriva intorno a lei come i petali di una magnolia.

Le strinsi più forte la mano, prima di voltarmi. A guardare lui.

Mio cugino. Mio fratello. Il mio amico. Quel remoto mistero familiare.

Mi chiesi dove stessero volando le sue iridi cobalto.

Era ancora più bello del solito, Kaede. Mentre stava dritto davanti alla tomba di sua madre, quella madre giovane e bella, che l’amava come si amano le stelle.

Non riuscivo a credere che davvero fosse morta.

Ancora adesso mi è difficile farlo.

Ogni volta, mi attraversano la mente miliardi di flash veloci, baleni di vita ormai perduta.

Io e Kae. Seduti su un letto grande, ampio, matrimoniale. E loro, le gemelle, mamma e zia sdraiate tra noi, gli occhi al soffitto, a ridere e piangere e ridere, ridere…

Un gelato mangiato di nascosto. Un tuffo nel mare, con l’acqua che diventava fredda.

Gli occhi azzurri di mia madre, quando sua sorella sgridava Kaede e lei alle spalle gli sorrideva. E quelli quasi più intensi di mia zia, quando ero io l’imputato.

Noi crescevamo, e loro diventavano belle. Anche se belle già erano nate.

Non capisco come mia madre abbia potuto sopravvivere alla sua scomparsa. Loro divise, loro, che insieme avevano tratto ogni respiro, che sempre si erano specchiate e riflesse, imitate.

Non capisco come abbia imparato a cambiare. A invecchiare. A guardarsi di nuovo allo specchio, e saper ridere.

Sapendo che lei non sarebbe stata lì per sentirla.

Ma so fin troppo bene come invece abbia vissuto Kaede. Perché io ero con lui. Io lo tenevo per mano, io lo guidavo in ognuno dei maledetti passi che segnarono l’innegabile caduta di quell’angelo perduto. Io lo aiutavo, lo accompagnavo, e cercavo di impedirgli di volare via.

Non capivo ancora che il pericolo più grande era un altro.

Non sapevo che avrei dovuto temere la palude, e affidare al cielo la sua salvezza.

Gli angeli non hanno ragione di temerlo, il cielo. Solo il fango può ucciderli.

E io sciocco, io ingenuo e spaventato, io impaurito, in quel fango lo gettai.

Eppure, mi ero accorto subito che qualcosa non andava. Che un frammento dell’ ingranaggio perfetto si era spezzato.

Fin dal primo momento, quando raggiunsi in ospedale mio cugino e vidi i suoi occhi vuoti, e seppi che mia zia era sdraiata dietro quella porta, dentro un lettino, la mente lontana. Quando seppi che era in coma, e capii che non si sarebbe svegliata.

Quando accettai di averla persa, e compresi, anche se sempre l’avrei negato, che nello stesso momento, avevo perso anche il piccolo Kaede dagli occhi marini.

Tutto cambiò, da allora. E se gli insulti di mio zio non poterono uccidere mio cugino, fu solo perché quel bambino, quel bambino dal sorriso di luce, ormai era già morto.

Non avrete davvero creduto possibile che IO arrivassi in fondo a una fic senza nominare almeno una coppia di gemelli?!?!? Comunque, la morte della madre è la prima ragione che ha portato Kaede a fare quel che a fatto… la seconda sarà il padre, ma ne parleremo meglio nel prossimo intermezzo, credo…

In ogni caso vi saluto, ora. Aggiornerò il prima possibile… spero di risentirvi tutti presto! kisses Roh